(dipinto di Marina Bellazzi)
Tutti proviamo rabbia e non dobbiamo vergognarcene. È un’emozione giusta e buona, che ci avverte che una situazione o una persona hanno passato il limite e hanno toccato qualcosa di sacro dentro di noi. La rabbia ci protegge. Difende quello che siamo e quello per cui abbiamo lottato. Ed è comunque una forma di comunicazione. Meglio arrabbiarsi che non chiudersi in un silenzio gelido: “Nessuna cattiveria supera quella che ha aspetti silenziosi e freddi”, ha scritto il poeta Ungaretti.
Quando la rabbia smette di essere un’emozione sana e diventa distruttiva? Quando fa male, ferisce, insulta. Quando chiude l’ascolto e, lentamente, corrode i nostri rapporti con gli altri. O quando si rivolta contro di noi: trattenuta per lungo tempo, non espressa la rabbia diventa depressione, e ci toglie la voglia di vivere.
Se proviamo un senso di freddezza, se niente riesce più ad appassionarci, ad entusiasmarci, è probabile che siamo vittime della collera, che è una forma di rabbia inepressa, covata e trattenuta nel tempo.
Se invece qualsiasi cosa ci fa arrabbiare, è probabile che siamo esaurite, o depresse, o che qualcosa del passato sta minando sottilmente la nostra vita: si chiama “sequestro emotivo”, un avvenimento del passato che è ancora così vivo nel nostro inconscio da riattualizzarsi continuamente appena succede qualcosa che ci fa sentire di nuovo rifiutati, o mancanti di rispetto, di amore, di considerazione. Si chiama “sequestro” perché siamo prigionieri del nostro passato.
Reprimere la rabbia non funziona: è come mettere un fuoco in un sacco. Prima o poi il sacco si incendia, e noi diamo in escandescenze, oppure ci scottiamo, o scottiamo gli altri.
Pero’: “Tutte le emozioni portano sapienza” ha scritto Clarissa Pinkola Estés nel suo meraviglioso Donne che corrono con i lupi. Quindi la prima cosa da fare con la rabbia è chiederle: che cosa vuoi dirmi di me stessa? Che cosa puoi fare per me? Persino quando siamo infuriate, o confuse, o infuriate e confuse nello stesso tempo, stiamo covando dentro di noi un potenziale di luce, energia, vitalità, creatività: il trucco è riuscire a sbloccarlo e a metterlo al nostro servizio.
A questo proposito ci può essere utile una storia, presa dalla narrazione junghiana. Parla di un Drago che terrorizza un villaggio: tutti i giorni va nella piazza del mercato e vomita fuoco sulle mercanzie e sulle persone. Così il villaggio si rivolge all’Eroe, e lo prega di uccidere il Drago. Ma l’Eroe va a parlare con il Drago e gli dice:
“Senti caro Drago. Lo so che vomitare fuoco è il tuo mestiere. Ma che ne diresti, invece di distruggere il mercato, di incendiare i rifiuti che sono accumulati appena fuori dal villaggio, su quella montagnetta?”.
Il Drago si dichiara d’accordo, basta che lo si lasci sfogare. Il Villaggio è felice, perché è riuscito a utilizzare il fuoco per qualcosa di positivo e utile alla comunità, e l’Eroe è contento perché non ha ucciso nessuno.
Bisogna sapere che nella psicologia junghiana ogni personaggio di una storia rappresenta una parte di noi: il Drago sono le nostre pulsioni incontrollabili, il Villaggio il nostro Io, e l’Eroe la parte più matura e illuminata di noi che trasforma le pulsioni distruttive in scelte che ci fanno bene e non rovinano i nostri rapporti con gli altri.
Tutti possiamo imparare a fare appello all’Eroe dentro di noi in modo che ci aiuti a far venire fuori il lato nascosto della rabbia: quello che ci può tornare utile.
La rabbia è un’emozione potente e imparare a gestirle a volte è un lavoro duro. Per fortuna abbiamo tanti strumenti che ci aiutano.
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